Willem Danielsz Van Tetrode, alias Guglielmo Fiammingo, tra naturalismo nordico e classicismo italiano
Allievo di Benvenuto Cellini, collaborò al Perseo e realizzò lo stipo di Pitigliano
di Irene Tempestini
– Firenze fu, nei secoli d’oro, fucina di celeberrimi maestri presso i quali si formarono innumerevoli artisti, troppo spesso poco noti o peggio ancora sottovalutati, tra questi l’olandese Willem Danielsz Van Tetrode, nato a Delft nel 1525, architetto e scultore. Anonimo fino al 2003 e per lo più sconosciuto ancora oggi al grande pubblico, Guglielmo fiammingo (così era stato italianizzato il suo nome), si formò tra il 1545 e il 1549 nella bottega fiorentina di Benvenuto Cellini (Perseo, Loggia dei Lanzi, Firenze). A Firenze Tetrode partecipò al restauro di un antico torso che fu trasformato in un Ganimede (Bargello) per Cosimo I d’ Medici, e collaborò all’esecuzione della base per il Perseo del maestro Cellini. Lavorò anche per una fontana pubblica fiorentina (Fontana del Nettuno). Del Cellini assimilò lo stile elegantemente manieristico, tipico della Firenze di allora e come era inevitabile per un artista del tempo, desideroso di conoscere a fondo l’arte italiana, Tetrode fece un viaggio a Roma; nella capitale lavorò nella bottega di Guglielmo Della Porta, (restaurò antichità per il Cortile del Belvedere) dove iniziò a farsi influenzare dagli esempi antichi.
Il Museo Nazionale del Bargello e gli Uffizi conservano diciannove bronzetti (sculture in bronzo di piccole dimensioni, circa 40 cm di altezza), attribuite all’artista da Anna Maria Massinelli, che testimoniano l’arte del Fiammingo e che costituivano il ricco ornamento di uno stipo, la sua opera più importante, donato nel 1562 da Gianfrancesco Orsini, conte di Pitigliano, al Granduca Cosimo I, in segno di riconoscenza per l’appoggio militare offertogli durante gli anni di tumulto popolare. Molto probabilmente però l’opera fu realizzata tra il 1545 e il 1562, al tempo del padre di Gianfrancesco, Niccolò Orsini ma, come si legge in una testimonianza rilasciata dallo stesso Tetrode per motivare la sua presenza in Italia, doveva avere un’altra destinazione [“Petigliano, per ingegnero d’uno studiolo che faceva fare il conte per donarlo al re Filippo” – Filippo II di Spagna, nda]. Lo stipo, del quale si sono perse le tracce, era ornato da molte statue imitate dall’antico e doveva sicuramente distinguersi per il tono maestoso e celebrativo, dovuto alle dimensioni (2,40m x 3,50m ) e alla scelta dei soggetti, tanto che fu molto apprezzato dai successori di Cosimo I.
Francesco I lo fece trasportare nella Galleria del Casino di San Marco, mentre Ferdinando II lo spostò a Palazzo Pitti, dove rimase fino alla metà del Seicento. Nel 1676 fu collocato all’interno del Museo degli Uffizi fino alla seconda metà del Settecento, quando fu relegato nel cosiddetto Arsenale Vecchio. Dopo il passaggio nella Guardaroba se ne persero le tracce, mentre le statue, che inizialmente confluirono nella sala dei bronzi moderni, sono oggi divise tra il Bargello e gli Uffizi. Grazie alle descrizioni inventariali settecentesche, conosciamo le dimensioni e sappiamo che era composto di due corpi; presentava nella parte inferiore un basamento chiuso da due sportelli ed una alzata coronata da un timpano dove entro nicchie erano collocati i dodici busti imperiali. Quattro bronzi erano disposti lungo il piano aggettante del supporto: al centro Venere De’ Medici e Antinoo, sulle due fiancate bronzi raffiguranti Ercole. Sulla sommità del timpano Apollo Belvedere, i Dioscuri (Castore e Polluce) ai lati, ed al centro la replica del Marco Aurelio; la struttura in legno di noce, era inoltre variamente ornata da profili e cornici intagliate.
La scelta dei soggetti fu probabilmente dettata dal soggiorno romano, quando Tetrode lavorò nella bottega di Guglielmo Della Porta, coincidente con gli anni dei fortunati ritrovamenti archeologici delle Terme di Caracalla. La fortuna che ebbe questo stipo la si deduce dalla grande diffusione che conobbe soprattutto negli anni Settanta e Ottanta del Cinquecento e da alcuni disegni realizzati da Giovanni Battista Caccini e da Giovanni Antonio Dosio.
Tetrode dimostrò una grande abilità nelle riproduzioni, perfezionando un sistema che permetteva calchi multipli e quindi multiple copie, da modelli di più grandi dimensioni. Spesso è difficile anche capire su quale delle copie abbia effettivamente lavorato. Lo scultore olandese sfidò dunque l’idea di autenticità e spinse gli elementi del manierismo fino al limite, cosa che si addiceva al suo pubblico elitario. Dimostrò anche la sua conoscenza dell’anatomia, enfatizzando ogni singolo muscolo, come gli addominali che sono sempre tesi a sostenere il peso della figura a mezz’aria, così da sembrare corpi capaci di sfidare la forza di gravità.
Il lavoro di Tetrode è caratterizzato da composizioni altamente tridimensionali, da pose atletiche, muscoli tremendi e gonfi. I temi mitologici, in cui divinità ed eroi hanno un ruolo principale, sono centrali nel suo lavoro. Intorno al 1560, ad esempio, Ercole simboleggiava le virtù dei regnanti e Guglielmo Fiammingo fu molto influenzato dalle sculture che rappresentavano le Fatiche di Ercole, realizzate da maestri scultori quali Giambologna e Vincenzo De’ Rossi. Questo antico e potente eroe stimolò nello scultore olandese l’interesse per le possibilità espressive del nudo maschile, così Ercole divenne il soggetto più ricorrente in Tetrode. Conosciamo il bronzetto dell’Ercole Farnese (Uffizi) proveniente dallo stipo di Pitigliano, che stava col suo gemello ai lati delle sculture nella parte bassa, quasi a sostenere simbolicamente il peso della cultura che esse rappresentavano. Esistono anche quattro versioni dell’Ercole Pomario e gruppi con le Fatiche d’Ercole.
La sua bravura nel replicare statue antiche è testimoniata anche dall’influenza che le sue opere ebbero su artisti quali Hendrick Goltzius, anch’egli olandese (1558-1617), che ne riprese il saper unire il naturalismo dell’arte dell’Europa del Nord col classicismo italiano.
Sei dei diciannove bronzetti furono inclusi in una mostra curata da Frits Scholten (del Rijkmuseum) presso la collezione Frick di New York. Da allora Guglielmo Fiammingo non è più uno sconosciuto.