Toni Erdmann: padri e figlie, quando l’autenticità è esplicativa
di Alessio Gorgeri
Il rapporto tra padri e figli è sempre stato uno dei temi preferiti da parte degli artisti, cosa fisiologica dato che ognuno di noi, prima o poi, ha dovuto fare i conti non solo con la presenza ma anche con l’assenza dei propri genitori. In particolare, i padri, solitamente, assume una valenza più drammaturgica perché, a differenza delle madri, hanno un rapporto più contrastato con i figli, forse a causa della diversa maniera con cui un uomo si relaziona col mondo e quindi con la prole.
Toni Erdmann, terzo lungometraggio della tedesca Maren Ade, non è il solito film sulla relazione tra un padre e una figlia. I protagonisti sono Winfried, un insegnante di musica col pallino per gli scherzi, e sua figlia Ines, ambiziosa ma depressa donna in carriera. Quando muore il suo adorato cane, Winfried decide di intraprendere una missione quasi impossibile: salvare dalla disperazione sua figlia grazie alle sue burle surreali. Quando si rende conto che Ines sopporta malamente i suoi scherzi, Winfried decide di trasformarsi, come un supereroe ma con denti finti e parrucca invece di mantello e calzamaglia, nel suo alter ego: Toni Erdmann. Una volta nei panni di Toni, Winfried si scatena e prende in giro con allegria chiunque gli capiti a tiro, e improvvisamente si apre uno spiraglio nella maschera dolorosa di Ines.
Sorretto da una sceneggiatura piena di inventiva e a tratti geniale (divertentissima la scena al ristorante in cui Winfried/Toni si palesa improvvisamente alle amiche di Ines), Toni Erdmann narra di un padre che si impegna a fare il padre con la propria figlia ormai adulta ma sperduta come una bambina, insoddisfatta e infelice a causa del suo lavoro chiaramente frustrante. Al centro c’è sempre il complicato ma tenero rapporto padre-figlia, senza banali filippiche contro il logorio della vita moderna: gli scherzi situazionisti di Winfried non servono a restituire il sorriso alla figlia (non è una bambina di dieci anni) ma funzionano da terapia d’urto finalizzata alla demolizione di una seriosità costruita che non permette a Ines di vivere serenamente. Erdmann, l’alter ego, rappresenta un processo terapeutico nel quale Ines ha bisogno di dimenticare se stessa per ritrovare la felicità; non può essere un caso che Winfried sia un insegnante, infatti nei confronti della figlia si comporta come un maestro di vita (oltre che a presentarsi a chiunque incontri come un life coach).
Bravissimo Peter Simonischek, l’attore austriaco che interpreta Winfried/Toni, il quale riesce a evitare (grazie anche al brillante lavoro di scrittura della Ade) ogni tono potenzialmente macchiettistico restituendo una persona più che un personaggio; ne è un esempio la scena in cui teme che a causa di una delle sue battute un innocente operaio possa essere licenziato (curioso che Ines sia una specie di cacciatore di teste, ovvero una persona incaricata di valutare esuberi e licenziamenti di massa).
Ci viene mostrato brevemente, anche se con efficacia, il rapporto tra Winfried e la sua vecchia madre, fatto di risposte sagaci e grande intesa, agli antipodi rispetto a quello con la figlia; anche questo è un guizzo di sceneggiatura degno di nota.
Toni Erdmann è, in sostanza, un film che parla del ruolo dei genitori. Il fatto che la figlia, in questo caso, sia una donna di 35/40 anni è centrale: non si smette mai di fare i genitori e non si smette mai di essere figli. È la storia immortale di un padre che farebbe di tutto per salvare la vita dei propri bambini, e qui non si parla di un Liam Neeson che fa cose quasi sovrumane per evitare che la figlia finisca in un ripugnante circuito di schiavismo sessuale ma di una persona comune che non ha paura di mettersi in ridicolo di fronte alla società perché è un prezzo insignificante da pagare per la felicità delle persone che si amano.
È con questa autenticità che si riesce davvero a comunicare qualcosa di importante.