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Sauro Ciantini, o così o pomì

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Il celebre autore di Palmiro, idolo delle fidanzate lontane, tra cucina, orto e sperimentazione artistica

di Riccardo Tronci

– Vi invitiamo a salire a cavallo di un manico di scopa e seguirci tra colline di opere d’arte e uomini ancora capaci di suscitare emozioni, scansando con abilità le persone troppo dedite ai selfie per cogliere il panorama ai lati, a volte più importante del soggetto. Incontriamo Sauro Ciantini autore celeberrimo di Palmiro, papero idolo delle fidanzate lontane, antieroe di Comics e negli ultimi anni piccolo e timido baluardo culturale, profeta dell’amore e dell’arte in un panorama desolante di pseudo-cultura facile. Per prima cosa proviamo proprio a dare risalto al contorno. O al secondo, visto che partiamo da lontano, dalla cucina.

Palmiro

Palmiro

Giorgio Morandi aveva abitudini molto particolari a tavola, per cui tutto era apparecchiato alla perfezione, lindo e bianco, ma la cucina non rispecchiava (solo) la tradizione. Brandi mangiò da lui per la prima volta il riso al curry. Com’è la tavola di Ciantini?

Legata alla tradizione. Sono stato abituato molto male: il pane deve essere pane, meglio se non con farina 0, l’olio assolutamente extravergine e di olivi che conosco personalmente e che posso andare a trovare per sentire come stanno, l’insalata rigorosamente dell’orto. Anche per la cucina straniera esigo un alto livello. Quindi patisco molto la vita moderna dove tutto è facile e sbrigativo o tirato a lucido, ma soprattutto: truffaldino! E anch’io amo molto il curry. In particolar modo il pollo al Curry, quello fatto con le mele, l’uva appassita e il miele…

Quanto tradizione biologica? Quanto derivato dal tuo orto? Quante sperimentazioni? E… quanti conigli fiordilatte?

Se possibile pratico il biologico e lo promuovo, ma non fino al punto di comprarlo in negozi fighetti pagandolo tre volte tanto! Ben attento, per quanto possibile, ai giochetti sulle certificazioni. Diciamo che certezze non ce ne sono mai quindi indosso delle comode e resistenti mutande al titanio, e vago per mercati, supermercati, e spacci contadini. Attento e vigile. L’orto in casa c’è e non sul terrazzo, ma a causa del contadino che quest’anno è minato da varie paturnie esistenzialiste, sarà più molto piccolo, e forse potrò dedicarmi solo ad alcune specie di pomodori.  Sul coniglio fiordilatte non cedo alle provocazioni: se possibile non mangio coniglio perché come carne non mi piace molto. Ma sono un carnivoro. Capisco i valori vegetariani e ammiro chiunque abbia davvero il coraggio di vivere secondo un proprio Credo rispettoso degli altri, animali e non, e della natura, ma resto un peccatore. Ad esempio non consumo il paté d’oca, viste le torture per ottenerlo, e evito carni di animali tenuti stipati nei lager industriali o di mangiare poveri agnellini, ma resto comunque un grande peccatore.

Quanto e cosa insegna ad un artista la natura? L’arte è imitazione del vero e della natura?

Nelle grotte preistoriche l’artista (spesso anche sciamano) non imitava la natura, come solitamente si pensa, ma raccontava quello che “vedeva” dentro di sé, in stati di trance provocati dalle droghe o semplicemente dal freddo e dalla fame. Raccontava le proprie visioni al piccolo mondo che lo circondava. Poi l’artista ha sentito l’esigenza di far vedere la vastità del mondo, come si è fatto poi con la macchina fotografica. Un cesto di frutta, una battaglia, un veliero prigioniero di una tempesta, un “selvaggio” con lancia e scudo. L’uomo ha sempre avuto fame di immagini. Chi aveva mai visto un rinoceronte? O un palazzo cinese? Le immagini stavano diventando più importanti delle parole. Specie in un mondo di analfabeti o semianalfabeti. E una volta raggiunta la perfezione che faceva pronunciare il commento più ambito: “Quel grappolo d’uva sembra vero!”, si è ricominciato a tentare di dipingere l’invisibile: quello che c’era dentro di noi, come uno “sentiva” e vedeva un tramonto, un fiume, una colazione sull’erba. E non è stato più importante che un albero fosse uguale identico a un albero vero, bastava che lo sembrasse… che lo ricordasse…

Dall’imitazione della natura alla “necessaria provocazione”: Clet ad esempio. Cambiare senso e raffigurazione ai cartelli stradali è arte? O solo provocazione?

Chiamarla arte mi sembra esagerato. Un’opera diventa Arte non lì sul momento ma solo dopo che è stata metabolizzata dal mondo, analizzata e criticata, e inserita in un percorso preciso della Storia dell’Arte. Non basta che un critico dica: questa è arte. Troppo facile. Lo si dice, a volte, per stabilirne velocemente un prezzo di vendita e meglio se più alto possibile. Si modificano cartelli stradali come s’impacchettano monumenti, o si fanno graffiti, ma non tutto è arte! Ritengo comunque che Una Storia dell’Arte debba esistere, per poterla seguire o andarci contro, o cercare di distruggerla. Il problema è che tutto oggi può essere arte. E’ questo che spiazza molti.

Sauro Ciantini

Sauro Ciantini

Cosa ne pensi di Fra Biancoshock, dell’arte effimera in genere?

L’arte effimera è appunto effimera e va vissuta così. Come un panino con la mortadella non può definirsi “un pranzo completo”. L’effimero è spesso più leggero, più divertente, e non occorrono anni e anni di studi e grandi sacrifici! Per questo va molto di moda. Basta avere idee e conoscere i meccanismi del mondo artistico e della comunicazione. E’ comunque uno dei tanti “nuovi” che avanza… come prima lo era un Marcel Duchamp. Anche se Duchamp è ancora attuale e capace di “affermare cose” e per questo può definirsi un Artista.

L’ultima volta che ti sei commosso davanti ad una scultura, un disegno, una pittura…

Io mi commuovo spesso… non che pianga come una fontanella (quello lo faccio al cinema e l’ultima volta che l’ho fatto è stato col film “Il concerto” che non avevo ancora visto). Mi commuovo internamente, ad esempio ogni volta che sfoglio un libro su Picasso o vedo un suo quadro originale… O rimango incantato dalla sintesi estrema e infantile di un artista/designer giapponese come Masao Seki. Ma anche un acquerello di Turner… o una illustrazione di Ferec Pinter o di Victor Ambrus…

Nazionalizziamo il tema. Qual è l’ultimo grande italiano, che ti ha smosso sensazioni forti.

Il penultimo è un vecchio italiano che si chiama Afro. Un amore istantaneo e mortale. Un vero colpo di fulmine! Incontrato in un vecchio libro a un mercatino dell’usato. E poi Alberto Burri, che conoscevo molto poco e che ho scoperto grandioso. Non in tutte le sue cose ma in alcune sì. Tipo le serigrafie. Io amo molto l’arte italiana fino alla metà degli anni ’70. Ma cerco di seguirla anche adesso. Mi piace molto la Land art, specie quella fatta nei boschi con rami intrecciati… o pittori legati ai mondi dell’illustrazione come Daniel Egnéus . Il prodotto nazionale ritengo abbia iniziato a inquinarsi alla fine degli anni ’70… fino ad allora c’era più creatività e originalità, poi è stato un cercare di fare gli “amerigani” scopiazzando e illudendosi di vivere in uno scantinato a New york ma andando poi a pranzo da Felice, a Trastevere. Tranne poche eccezioni. Com’è stile italico. Dove ci si fa belli sulle “eccezioni”.

Che ruolo gioca nel panorama artistico-culturale attuale la politica?

Palmiro

Palmiro

La politica è centrale nella nostra vita. Come lo è l’autista del taxi che ci sta portando attraverso la città. Se è un ladro tenterà di truffarci e di rubarci i soldi della corsa. Se è un cretino ci porterà in un punto sbagliato o pericoloso della città. Se siamo un popolo di capre ignoranti non è colpa della televisione ma della politica che ha piazzato i proprio uomini “fidati” nei posti cruciali per rubare e fare i propri comodi. La Cultura è capace di grandi miracoli e di portare denaro in Italia, però si preferisce pubblicizzare i “selfie” e definirli “la nuova moda che fa impazzire degli italiani”.

Sul tuo blog, riferendoti ad una tua recente creazione () hai paragonato l’istinto della prima pennellata al buttarsi da una rupe in bicicletta. Chi è con te sulla rupe, prima della primissima pennellata?

Insieme a me in quel momento non può esserci nessuno, io solo devo trovare il coraggio di darla. Non che questo comporti un così grande pericolo ma una volta iniziato dovrò finire, nel bene o nel male, costi quel che costi. E se dipingo male sarà come precipitare da una rupe!

Chi si esprime per “partorire” rabbia, sbaglia? Chi vuole lanciare le battaglie con la propria (supposta?) arte, sbaglia? Ai Wei Wei, ad esempio. Che ruolo ha (se lo ha) l’artista nella comunità?

Ognuno deve fare quello che si sente di fare. Chi ha sul collo uno scarpone chiodato è ovvio che tenti di ribellarsi, che sia con un quadro o un happening! O anche un colpo di fucile. Come ebbero a cantare gli Area: “Il mio mitra è un contrabbasso…” La canzone è: Gioia e rivoluzione!

Rivoluzione che vende. Rivoluzione che smobilita gente, ma anche mercati, mentre grandi artisti vivono di piccole produzioni, lontani dalla celebrità.

Il mercato esiste da sempre. Che Guevara è famoso sicuramente più per quell’immagine venduta sulle magliette che puoi trovare nel mercatino settimanale in costa azzurra o al concerto punk in un centro sociale. L’essere messo su una maglietta venduta in ogni dove vanifica l’opera del Che? Ne sminuisce il valore rivoluzionario? Il Che Guevara diventa Peppa Pig? Gli anni ’70 si sono masturbati molto su questi concetti. E poi nessuno ti costringe a fare nulla, sei tu che accetti che questo avvenga. Per vanità o bisogno e fame.

Per vanità o bisogno. Botticelli aveva “bisogno” per cui dipingeva su commissione, ma nascondeva dietro immagini sacre la sua continua ricerca. Succede anche a te quando disegni una pubblicità, quando appaghi le “richieste del mercato”?

La materia è complessa. Io non ho mai voluto fare l’artista, se no avrei fatto un percorso diverso. A me piace disegnare, dipingere, inventare storie, e divertirmi con esperimenti di vario genere. Anche musicali o sonori o video. E mi piace lavorare con persone diverse, fare cose “alte” o “basse”, pagate e non, comunque: fare. Sporcarmi le mani. Nella musica il corrispettivo di quello che sono le jam session. Quindi passo dalla pubblicità, al fumetto, all’illustrazione, al dipingere su un tessuto, a seconda dell’umore e delle possibilità che mi capitano. A seconda delle persone che incontro. Pagato o non, sempre però in modo serio e professionale. Che c’è di male a lavorare su commissione? Il denaro non mi fa paura. Non è lo sterco del Diavolo come dice quel signore vestito di bianco che ne possiede tanto. Anche in presenza di richieste assurde fuori dalla Grazia di Dio, o mediocri, cerco sempre di salvare la mia anima. E anche capra e cavoli. Non sempre mi riesce, il mestiere è difficile, e la gente spesso contaminata o irrimediabilmente persa nel proprio Ego, ma questa è la vita, baby. O così, o pomì.

Lo hai scritto recentemente, non arte ma “artigianato artistico”. Glocal. Vorrei che parlassi di questo tuo “manifesto”, redatto in brevi frasi sulla tua tela ultima. Glocal, come a tavola…

In questo periodo sì. Dopo tanto computer una bella pausa folk. Ho fatto uno spot animato per la Bayer-Francia, che ora viene trasmesso anche in Italia, e quindi: grandi riunioni a Milano, grandi budget, tante prove e discussioni, e notti frustando a sangue amici che hanno animato le cose che disegno. La regia è di un Dio che si chiama Guido De Maria, e anche lo storyboard, con il quale è stato emozionante lavorare. Quindi adesso, ho bisogno di campagna, musica di Sibelius nel sottofondo, e cose semplici… come intagliare da solo la penna di bambù, o modificare i pennelli…

Pennello… modificato?

Certo… una specie di “pianoforte preparato“… L’uomo che realizza da solo i propri strumenti… La tecnica di Van Gogh spesso era solo il risultato della miseria nella quale versava, del non poter comprare pennelli nuovi, e quindi usava e riusava i vecchi tutti corti e spelacchiati. Oggi i fighetti come me li comprano nuovi e li tagliano. Un vero schiaffo alla miseria!

L’arte segue e a volte anticipa la società, arte è cambiamento? evoluzione?

Credo che l’arte ormai si muova per conto proprio lungo vari binari contemporanei. Non esiste più un percorso comune. Mentre a Milano si impiccano dei bambini in vetroresina, a un albero, magari a Bologna si realizzano installazioni di specchi e luci, e a Roma si promuove un ritorno alla pittura figurativa, a New York si celebra un’istallazione con pasta & fagioli.

Come e in cosa si sta evolvendo la società?

L’unica certezza è che avremo una sommatoria di tantissime piccole realtà. Una frammentazione. Milioni di comunità connesse tutte in un’unica rete ma ognuna dedita ai propri interessi specifici. Come è sempre successo anche nella propria città: chi ama le mostre d’arte, chi il calcio, chi ama la musica, chi i fumetti, etc etc. Solo che il “chi ama la musica”, ad esempio, sarà a sua volta frammentato in altri centinaia di migliaia di sottogruppi: il post-dark, il britpop, il desert-rock, e tutti avranno a disposizione il mondo (grazie alla rete) per non sentirsi soli e isolati.

Avere a disposizione il mondo ma “essere soli”? Si era più social nella piazza davanti casa?

Quelli che criticano i ragazzi che oggi abitano i social, sono proprio coloro che anni fa si erano a loro volta trasformati in uomini-col-telecomando-sul-divano, perché l’uomo –appena possibile- sceglie sempre la via più facile, quella meno ripida, meno fangosa, meno pericolosa, e quindi se compare un social al quale attingere quando vuoi, come vuoi, magari mettendo una foto che non corrisponde alla realtà o solo buffa, ed avere così “amici” a costo zero, è ovvio che l’essere umano ci si butti a capo fitto.

In alcune tue storie si legge di un presente in bilico, in cui all’arrivo dei “Barbari” di Baricco si risponde cercando di conservare la cultura, o segni di essa. Se la metafora fosse realtà, cosa realmente salveresti?

Per come siamo messi credo che non sarà possibile salvare tante cose. Un paese arretrato incapace di cambiare, non può che arretrare ancora. Anche se nel passato è stato capace di produrre eccellenze. I barbari arrivano oggi come son sempre arrivati in tutti gli imperi, specie quelli in odor di decadenza, ma credo che questi nuovi barbari non potranno essere peggio di Ali babà e i 400 ladroni che ci hanno governato fino ad ora.


Anche il fumetto sta vivendo un periodo di evoluzione. E’ sempre più facile rintracciare in rete storie a fumetti in piccola parte animate. Il fumetto saprà resistere? E ancora, proprio in un momento di transizione il mondo che conta della narrativa si accorge di produzioni finora snobbate e considerate di secondo piano. E’ il caso di Gipi candidato al Premio Strega.

Chi non si evolve, si estingue. E’ inevitabile. Così sta succedendo al fumetto. E’ dimostrato scientificamente che leggere un libro è più faticoso che guardare un film, e quindi, sempre per la teoria espressa nella domanda precedente, il fumetto è in pericolo perché risulta alla massa più faticoso da leggere che seguire guardare la stessa storia raccontata in un film, svaccati in poltrona, con amici, mangiando patatine alla paprika. Infatti i film di supereroi hanno molti più spettatori di quando escono in formato cartaceo. Ma queste cose si sanno. In Italia si sanno molte cose ma poi, alla resa dei conti, ognuno tira l’acqua al proprio mulino. Che l’ultimo libro di Gipi sia candidato al premio Strega è sicuramente una bella notizia, a me Gipi piace molto, ma una rondine non fa primavera e quindi è inutile sciogliersi in mille orgasmi. Se la casa editrice di Gipi si fosse chiamata “Mariolina Cannuli Editrice” avrebbe magari venduto le stesse copie (perché il libro è bello) ma sarebbe restato al proprio posto. Nel proprio ghetto, come tanto fumetto di qualità. A Hugo Pratt è mai stato dato il Premio Strega? Non ricordo…

 

 

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