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Les Krims: scena del crimine senza cadavere

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Les Krims, Human Being as a Piece of Sculpture Fiction , 1970

di Alessandro Pagni

Les Krims nasce a New York il 16 agosto 1942 e terminati gli studi artistici, comincia la carriera di fotografo freelance nel 1967, portando avanti contemporaneamente il lavoro di docente, prima per la Rochester Insitute of Technology e in seguito alla State University of New York di Buffalo.
Un percorso come tanti. Una persona comune. Una brava persona, direbbero forse i vicini. Probabilmente una di quelle che saluta sempre. Chi l’avrebbe detto che sarebbe diventato un efferato, dissacrante e spassoso “criminale fotografico”?

In un pezzo di American Psycho di Mary Harron, Patrick Bateman (il protagonista) fa outing: «Ho tutte le caratteristiche di un essere umano: carne, sangue, pelle e capelli, ma non un solo, chiaro, identificabile, sentimento. A parte l’avidità e il disgusto. Qualcosa di orribile sta succedendo dentro di me e non so perché. La mia libidine notturna per il sangue ha invaso le ore del giorno. Mi sento letale, sull’orlo del delirio. La mia maschera di normalità sta per scivolarmi di dosso».

les krims-pussy and crime scene

Les Krims, Pussy and Crime Scene Fiction with Visible Tampon String Clue, Pleasentville, New York, 1969

Ecco, se avessimo davvero poco tempo, per raccontare qualcosa intorno a Les Krims, lo faremmo esattamente così: descrivendolo come un male ironico e spietato, lasciato a covare troppo a lungo.

I suoi lavori, soprattutto quelli degli anni ’70, come The little people of America (1971) The deerslayers (1972) e di The incredible case of Stack O’Wheat murders (1972), ma anche quelli più marcatamente politici dei decenni successivi, come The decline of the left (1997), sono aggressioni, passate per la lama di un coltello affilatissimo, al volto di un’America che si ingegna e si industria per risultare pulita, satura di colori e libera. Les Krims riscrive tutto, sporca quegli interni delle famiglie borghesi di finto sangue e urina, massacra il gusto dei fotografi, il concetto di bello e quello di sublime, stupra la religione con il riso, distrugge ogni possibile icona, mescolando giochi di bambino con nudi taglienti che rifuggono qualsiasi ricerca estetica. Quando ancora pochi si arrischiavano ad andare tanto oltre.
Prima delle esilaranti menzogne di Fontcuberta, prima degli incubi della ragione di Witkin.

Le rappresentazioni di Krims sono scene del crimine con bellissime modelle assassinate e indifferenti, concentrate su quello che potrà pensare lo spettatore, vedendole in disordine: omicidi assemblati in modo meticoloso, fotografati e poi smantellati, come un bambino che dispone i suoi soldatini con pazienza e attenzione, per non arrivare mai alla guerra e finire col mandare tutto all’aria.
Gli omicidi e i piccoli teatri dell’assurdo di Les Krims sono come lui, una contraddizione manifesta, dove non si arriva mai al conflitto o alla soluzione del rebus e il male cova e si ricarica per la prossima aggressione: un’immagine del 1969 (Pussy and Crime Scene Fiction with Visible Tampon String Clue, Pleasentville, New York), quando questo

Les Krims, Floured Piece, Buffalo, New York, 1971

Les Krims, Floured Piece, Buffalo, New York, 1971

modo di fare fotografia non era ancora codificato, mostra, adagiato sul prato di un parco, un soggetto femminile (volutamente ambiguo sulla sua natura di donna o manichino) coperto per metà di foglie secche, e l’altra metà nuda, esposta al mondo e allo sguardo annoiato e vagamente interrogativo di un gatto nero; Floured Piece del 1971 dispiega una serie di profili di donna vuoti (che alludono all’intervento della polizia scientifica) all’interno di una situazione surreale, in cui la sagoma in primo piano è abitata da una modella più addormentata che morta, con il corpo totalmente macchiato dal gesso (o farina) delle indagini forensi.

Niente è sacro e nessuno è salvo sotto gli occhi di questo autore, neppure la propria madre sessantaseienne Sally Krims, che viene ritratta nuda e incerta sopra un paio di trampoli.
Non mancano poi le attenzioni ai colleghi fotografi, come possiamo constatare nelle spietate derisioni a Edward Weston, la cui effigie viene tracciata in modo grossolano sul pavimento e trasformata in un orinatoio (dalla serie “Piss Portraits” del 1973) o a Diane Arbus, per mezzo della figura di un adolescente affetto da nanismo, con al collo un cartello che recita il cinico messaggio «Diane Arbus lives in Us».

 

A.D. Coleman, in un importante articolo del 1976 dal titolo Il fotografo come regista, affronta il tema della messa in scena fotografica, collocandola a distanza siderale dalle pretese di obiettività, “purezza” o artisticità che la fotografia aveva invocato fino a quegli anni. Questo piegare la realtà, assemblando teatri bidimensionali, in cui orchestrare le proprie emozioni sotto forma di “situazioni”, sembra oggi un fatto assodato e sono molti gli esempi a

Les Krims, Diane Arbus Lives in Us #1, Buffalo, New York, 1971

Les Krims, Diane Arbus Lives in Us #1, Buffalo, New York, 1971

disposizione di quell’approccio che Coleman definirebbe registico; ma per decenni questa pratica è stata osteggiata e mal compresa. Les Krims è stato indicato dall’autore come uno dei maggiori esponenti di questo genere, sebbene da sempre il reportage cammini in parallelo con la pratica che diverrà un domani staged photography, o un’altra diramazione, comunque incentrata sulla costruzione pianificata di tableau: ne sono esempi importantissimi, O. G. Rejlander e Henry Peach Robinson, quando la fotografia era ancora una bambina o Ralph Eugene Meatyard nell’adolescenza del medium e Jerry Uelsmann, quasi coetaneo anche a livello artistico di Les Krims, nell’età della rivolta degli anni ’70.

La poetica di Krims è oscura, surreale e totalmente priva di compromessi; le stesse didascalie non sciolgono il mistero di certi assembramenti, ma al contrario contribuiscono a marcarne l’ambiguità: Human Being as a Piece of Sculpture Fiction del 1970 è emblematica, insolita per il periodo in cui è stata concepita e oracolo dei futuri deliri sempre più articolati di Idiosyncratic Pictures del 1980, dove la cura maniacale del particolare, diventa una lezione di stile che farà scuola per i David LaChapelle e Gregory Crewdson dell’età moderna; allo stesso modo il set Mary Miracles del 1976, avrà molto da insegnare allo sfottò religioso di Miracles & Co. (2002) di Fontcuberta.
Le sue provocazioni sono limpide e crudeli, abbastanza sporche e improvvisate da essere perfettamente credibili; non studia scandali, ma li partorisce come un dato di fatto e lo dichiara apertamente, come possiamo constatare nella lettera pubblicata in Camera Mainichi del 1970: «Io non sono uno Storico, io creo la Storia. Queste immagini sono impulso senza decisione. È possibile creare qualunque immagine si pensi; questa possibilità, naturalmente, dipende dall’esser capaci di pensare e creare. La più grande fonte potenziale delle immagini fotografiche è la mente».

Les Krims, Wheats, Buffalo, New York del 1969

Les Krims, Wheats, Buffalo, New York,1969

Prendiamo in considerazione un’ultima fotografia ancora, dalla serie The incredible Case of the Stack o’ Wheats Murders (1970), che funge anche da copertina del libro che l’ha ospitata. Si tratta dello scatto dal titolo Wheats, Buffalo, New York del 1969: un bagno ordinato, qualcosa a mollo nel lavandino, un orologio, un bracciale appoggiati con cura lungo i bordi e una pila di pancake, inspiegabilmente scordati sul coperchio del water; tutto questo come teatro di un delitto apertamente fasullo, dove una modella si inarca in una curva sinuosa, indicando con l’arco del braccio destro, la scritta di commiato che porta il titolo dell’opera.

Vogliamo associare questa immagine, e più in generale questo fotografo, alla riflessione che chiude la prima stagione della serie culto americana Dexter (incentrata sulla vita di un serial killer), immaginando che sia uscita dalla mente “criminale” di Les Krims, mentre sorride beffardo: «Così si sente un uomo che cammina in piena luce, il lato oscuro rivelato, le ombre accettate… Sì, mi vedono, sono uno di loro….nel loro incubo peggiore».

 

Bibliografia: A.D. Coleman, Il fotografo come regista: note per una definizione in Documenti e finzioni. Le mostre americane negli anni ’60 e ’70. Istituzioni e curatori protagonisti fra East e West Coast, a cura di M.A. Pellizzari, Torino, Agorà Editrice, 2006

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