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Ancora, ancora, ancora: l’erotismo disperato di Jan Saudek

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di Alessandro Pagni

Hai detto che la rabbia sarebbe tornata
proprio come l’amore
Ho una sembianza nera che non
mi piace. È una maschera, me la provo.
Migro verso lei e la sua rana
s’accovaccia sulle mie labbra e defeca.
È una vecchia, è anche povera.
Ho provato a tenerla a dieta.
Non le do l’estrema unzione. [1]

Se una notte, quando ancora eri bambino, fossero venuti a prenderti, mentre ignaro non riuscivi a capire se si trattasse dell’inizio o della fine di uno strano sogno, come guarderebbero i tuoi occhi dopo?
Se l’unico appiglio alla realtà, quella notte, fosse la voce di tua madre mentre cercava di rassicurarti, non sapendo come mascherare la paura, in che modo riusciresti a domandare amore o a farlo, nei giorni a venire?

Questa stella è mia, 1975 ©Jan Saudek

La vita di Jan Saudek è solcata da privazioni e costrizioni, dalla prepotenza feroce di due dittature agli antipodi, che si sono portate via i suoi giorni più limpidi, rendendolo una sorta di otusider, con una peculiare concezione dei rapporti sessuali e affettivi.
Nato nel 1935 a Praga da una coppia di ebrei dell’alta borghesia, viene rinchiuso in un campo di concentramento e finisce nelle mani di Josef Mengele, il terribile medico di Auschwitz (noto per i suoi esperimenti di eugenetica), ma riesce a fuggire. Gli altri parenti deportati, tranne il padre e uno dei fratelli, moriranno tutti nel campo di Theresienstadt.
La fotografia arriverà dopo, con la fascinazione per Steichen e la sua The Family of Man, con la ricerca ostinata di una forma di affetto inedita, che possa sostituire la mancanza di legami familiari e la necessità di sfogare pulsioni covate in quelle lunghe notti da incubo. Studia alla Scuola di Fotografia Industriale di Praga fra il 1950 e il 1952, lavorando nei campi e in fabbrica per sopravvivere: l’unico teatro delle sue passione più vere è lo scantinato sotto casa sua («questa cantina di 14 metri quadri rappresenta i più terribili, ma anche i migliori anni della mia vita»), dove di notte costruisce i suoi quadri fotografici con l’estro di un pittore, al riparo dalla censura dello stato, che lo ha reso di nuovo un prigioniero ideologico, nella Cecoslovacchia degli anni ’60 e ’70.

 C’è un bell’aspetto che indosso
come un grumo di sangue.
Me lo sono cucito sul seno sinistro.
Ne ho fatto una vocazione.
La lussuria si è piantata in esso
e io ho accostato te e il tuo
bambino allo sbocco del latte. [1]

Sebbene in quegli anni in patria, Saudek viva la sua arte in totale clandestinità, è conosciuto e apprezzato in tutta Europa e in seguito le sue mostre toccheranno anche Australia, U.S.A., Israele e Francia.
Il suo legame con la pittura è profondo, non solo perché dedica parte della sua creatività alla produzione di quadri o per il suo caratteristico uso dell’acquarello, per personalizzare le stampe fotografiche in bianco e nero, ma soprattutto per quei rimandi, coscienti o istintivi, a una pittura espressionista che ha attraversato le epoche: concentrata sulla compenetrazione fra sentimento e sessualità, fra passioni, inversione dei ruoli e un’ambiguità a tratti seducente e a tratti inquietante.

Il suo rifugio diventa uno studio di posa di fine Ottocento, arricchito da suppellettili e decorazioni prese da un magazzino teatrale; i suoi modelli sono uomini e donne di età differente, che spesso interagiscono in modo carnale, ricreando storie medievali e cavalleresche, passioni da romanzo rosa e una pornografia ammiccante e a tratti tenera, a tratti ingenua.
La colorazione artigianale, adattata ai forti contrasti della pellicola e del chiaroscuro dato da un’unica fonte di illuminazione, conferisce un’aura che rimanda a un romanticismo violento, fra le tinte drammatiche dell’ultimo Goya e i cadaveri smembrati e immersi nel buio di Gericault.

Omaggio al grande Vincent, 1990 ©Jan Saudek

La lezione di mandolino, 1994 ©Jan Saudek

La lezione di chitarra, 1934 ©Balthus

Alcuni richiami sono espliciti e immediati, come Omaggio al grande Vincent del 1990, dove i celebri girasoli di Van Gogh, fungono da unico elemento decorativo in una stanza spoglia, con le pareti logore, abitata dal tenero bacio di due amanti che si protendono l’uno verso l’altro carponi, sotto un cielo fittizio.
Altre immagini dialogano con l’arte pittorica in senso psicologico, esplorando le sordide atmosfere di comuni situazioni domestiche, dove punizione e insegnamento diventano pretesti per inscenare racconti saffici, che sottintendono un rapporto incestuoso fra le protagoniste: come non pensare, osservando La lezione di mandolino (1994) e La figlia disubbidiente (1994) alla violenta contrazione della giovane allieva, rappresentata da Balthus nella sua Lezione di chitarra del 1934, mentre si dibatte fra piacere e disperazione, sotto il tocco della crudele insegnante. In altri casi Saudek ribalta l’oscura ombra di una pubertà funerea e angosciante, tanto cara ad artisti come Edward Munch o al gruppo Die Brücke, con la sensualità consapevole e guerriera del suo Ritratto di una ragazza innocente (1997), forte e fiera come la sua aperta dichiarazione di rifiuto, di ogni costrizione o censura, imposta dalla società. Questo senso di rivalsa della sessualità femminile, questo splendido potere quasi tangibile nelle forme scultoree delle donne che popolano i suoi scatti, lo ritroviamo in altre occasioni, come le falliche minacce diGiovanna d’Arco del 1994 e, ancor più, de Il coltello del 1987, dove la posa tesa e lo sguardo risoluto e privo qualsiasi forma di pietà, ricordano la famosa Lady Lisa Lyon(1982) di Robert Mapplethorpe.

Ritratto di una ragazza innocente, 1997 ©Jan Saudek

Il coltello, 1987 ©Jan Saudek

Lady Lisa Lyon, 1982 ©Robert Mapplethorpe

Ben scandagliato poi è il tema del narcisismo che trova la sua sublimazione più onesta nell’autocompiacimento, nella masturbazione gioiosa e fanciullesca de L’alluce (1991) o della Narcisista che strizza l’occhio a quei San Sebastiano dipinti che, dal Rinascimento ad oggi, non sono riusciti a smentire la loro sana ambigua (vista la destinazione sacra) libidine verso il martirio delle frecce, forse per il godimento spirituale di preti e cardinali.

L'alluce, 1991 ©Jan Saudek

Narcisista, 1987 ©Jan Saudek

Le immagini del fotografo praghese non mirano alla protesta, alla trasgressione, sono una dichiarazione di passione e affetto, da chi non ha mai avuto la possibilità di riceverne con naturalezza; sono una fila interminabile di tentativi di esprimere il proprio bisogno di contatto, di fisicità. Le sue opere si potrebbero facilmente riassumere nello sguardo innocente e interrogativo di Travis Bickle (Robert De Niro), quando in Taxi Driver, porta la donna di cui è innamorato, a vedere un film porno e lei abbandona il cinema disgustata. È questo il solo amore che conosce. È un erotismo disperato quello di Saudek, che non riesce mai a diventare pornografia fine a se stessa, perché perennemente segnato da un senso di abbandono e fragilità: dal più recente Visitatore della notte (2000) all’inequivocabile Pornografo (1991), oltre l’atto, che si esaurisce in un intreccio di corpi simili a bisce, c’è solo la solitudine del dopo, con intorno il continuo marcio sgretolarsi delle emozioni.

Il bacio della morte, 1988 ©Jan Saudek

Il bacio della morte (1988) è una catarsi, di questo rimescolarsi dei valori comuni, di come il senso vero delle cose sia sempre e irrimediabilmente soggettivo e quindi non esista: una stanza indecifrabile, che potrebbe essere la cantina di sempre (e se anche non lo fosse è così che certamente la immaginiamo), un tendaggio che cala sulla sinistra, un tappeto arruffato per nascondere una seduta e poi l’uomo quasi incerto, quasi bambino, teso nella posa, mentre si china in avanti per baciare la morte; lei quasi madre, procace, generosa, adorna di fiori colorati e quasi amante nell’accoglierlo fra le sue labbra, per tenerlo al riparo, appena prima del buio.

Oh la nerezza è assassina
e il colmo del latte trabocca
e tutto il meccanismo mi funziona
ed io ti bacerò quando
Avrò fatto a pezzetti un’altra dozzina di uomini
E tu morirai un po’,
ancora, ancora. [1]

[1] A. Sextone, Ancora, ancora, ancora, in Poesie d’amore,  Firenze, Le Lettere, 1996, pp.114-115.

(Trovate i post di Alessandro Pagni anche su Un Fototipo: rifugio per pelli sensibili)

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