La fotografia di Alessandro Pagni, intima rivoluzione del vero
Il legame tra pensiero e scatto nelle opere del giovane lucchese
di Riccardo Tronci
– Mia figlia sta giocando nel parco. Le faccio una foto e la condivido su facebook. Guarda, una farfalla bellissima, uno scatto e la mettiamo sul gruppo di What’s up. Stamani mi sento proprio bene, mi faccio un “Selfie” e lo posto in rete. La fotografia mai come oggi ha avuto tanta fortuna e diffusione, tornando ad essere uno dei mezzi di comunicazione per eccellenza. In una società che privilegia le immagini al testo, si comunica con un nuovo alfabeto di video, foto, collage creati con programmi di fotoritocco e gestione immagini. Un uso talmente ampio che rischia di tarpare le ali alla ricerca fotografica, alla ricerca artistica di coloro che si dedicano alla macchina pensando, prima di scattare. O forse no.
Gianni Berengo Gardin, sui Selfie, si è espresso definendoli “frutto del narcisismo (che) interessano solo a chi le scatta, agli altri non importa di vederle. Un’immagine di qualità è quella che dà emozione, che comunica qualcosa. Le fotografie di 40 anni fa raccontano delle cose che non ci sono più. Io ancora oggi fotografo ciò che prevedo scomparirà“. Fotografia (solo?) come segno del tempo, come conservazione. Una fotografia conservatrice, questa. Reazionaria, forse.
Tuttavia se (quasi) tutti viaggiano per il mondo con una reflex digitale al collo, la fotografia è ben altra cosa che semplice ripresa del vero o narcisismo esibizionista. La fotografia non può riprendere il vero, perchè per quanto differente dalla pittura o da altre arti più consacrate, pone tra la realtà ed il prodotto artistico un medium che va oltre la macchina, l’uomo. E proprio dall’uomo parte la riflessione personale di Alessandro Pagni.
Si parte sempre dalla storia personale e non solo perchè non è realmente possibile fermare la realtà, ma perchè l’intenzione comunicativa è necessariamente interiore. La prima serie che Pagni sviluppa per raccontare una storia gioca tutta sui temi dell’assenza, della mancanza e della perdita (Presenze, 2007). Da lì, quasi casualmente, l’incontro fortunato di un fotografo e di uno scrittore, di un conoscitore di musica con un lettore forte e prende forma la sua personale cifra stilistica: l’intreccio della fotografia con le altre arti. Un testo di una canzone si inserisce come corona ad un’immagine, spiegandola e andando oltre, suggerendo ulteriori significati ed impressioni, comunicando sensazioni che spingono il mezzo fotografico ben oltre i propri confini, rapportandolo anche a medium sonori.
Due anni dopo, con la serie “L’Ultima Glaciazione“ lo sviluppo e la ricerca sono più netti, mostrando un forte interesse per le cacofonie, accostando la passione dei momenti d’amore con i toni freddi e glaciali degli scatti. L’idea è quella di pietrificare un momento ardente, criticando la qualità dei rapporti affettivi comunemente diffusa, lanciando la promessa di assaporare ogni istante, congelandolo nel tempo per non dimenticare.
Un’altra serie del 2009 mostra ancora un lavoro di sperimentazione in crescita (“22agosto 1968“), ma è attraverso il “Sussidiario Egoista“ che Alessandro Pagni guadagna la copertina de “Il Fotografo” (allora ancora diretto da Sandro Iovine) e vince il premio Confini edizione 2009, portando la sua fotografia in prestigiose mostre a Roma, Torino, Milano, Genova, Trieste e ben due volte a Siena. L’ispirazione nasce dall’idea di diario, crocevia ideale per una fotografia di ispirazione autobiografica, personale. Un diario visivo, dove le introspezioni e le citazioni si fondono mostrando un corpo unico, un punto di arrivo e sviluppo maturo di un percorso avviato nel 2007 con Presenze. L’elaborazione è completa, dalla scelta del soggetto e dello scatto alla forma visiva, dalla scelta della citazione e del testo (più o meno personale) al modo di legarlo all’immagine. A prima vista ciò che colpisce in questo lavoro è lo sguardo “a volo di uccello”, l’insieme creato dalle forme e dai giochi, che invita indiscutibilmente a capire, a cercare chiavi di lettura e riflessione.
Passo forse naturale, ma decisamente difficile nel mondo dei “Selfie” e dell’autoreferenzialità è quello del ritratto, dell’autoritratto, del parlare di sè senza scadere in banali egocentrismi. La vita è spesso un parlare di sè agli altri e farlo confrontandosi, magari cedendo a raccontare i propri lati deboli. “Guida pratica all’ipnosi“ si guadagna nel 2012 un terzo premio ex aequo al Portfolio dell’Ariosto a Castelnuovo Garfagnana e due mostre dedicate, a Colle Val d’Elsa e Bibbiena. La parola “ipnosi” è un pretesto per parlare di se stessi, come in trance, andando a scandagliare il proprio inconscio, immergendosi nei propri profondi residui scuri con cui conviviamo quotidianamente più o meno consciamente. Ecco, quindi, che Pagni suggerisce l’indagine interiore con delle “radiografie” (scatti di se stesso passati al negativo) con le quali egli stesso interagisce in versione sdoppiata, lillipuziana. Il risultato esalta la lotta interiore di ognuno, la continua tensione tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, il dualismo che ognuno di noi affronta quotidianamente.
L’importante crocevia del diario approda all’introspezione più limpida, mettendo (forse) un importante punto di arrivo a questo tipo di indagine artistica, come suggerisce uno degli scatti più recenti pubblicati sul suo personale sito, Anedonia.
Dall’introspezione il salto verso temi comuni e generali, che coinvolgono l’umanità tutta. Protagonista qui è un uomo (il fotografo stesso?), il suo volto è sostituito da un ferro da stiro di antiquariato, dalle “fauci” aperte. Una creatura quasi mitologica, una sorta di minotauro della gelosia che stringe il collo con una mano alla donna (amata?), lasciando che la bugia (nel testo) lasci posto alla verità, all’incapacità di provare emozioni (“Anedonia”). Della donna, in questo caso.