Intervista – Martian Patriots, i rockers nerd cresciuti con Metallica e merendine
di Irene Tempestini
Loro si definiscono rockers nerd profughi terrestri catapultati su Marte. In effetti il moniker che hanno scelto, Martian Patriots, la dice lunga… Nati nel 2012, musicalmente inseribili nel genere post grunge, abbiamo ascoltato il loro album d’esordio dal titolo “8 Steps to Impact”, uscito già da un po’ (dicembre 2014) e ci siamo chiesti se non fosse il caso di trattenere, almeno il tempo di un’intervista, sulla Terra questi giovani musicisti, incuriositi dal loro nome e attratti dal loro sound, qualitativamente molto buono. Prima che decidano di traslocare definitivamente su Marte dunque, conosciamo meglio i Martian Patriots ovvero Stefano “Steff ” (chitarra), Federico “Fesa” (batteria), Gabriele “Gandhi” bass e voce; Mauro “Mau” (chitarra), Lorenzo “Lollo” (voce).
Quando e come nasce la band?
I Martian Patriots nascono nel 2012, quando Lollo (cantante della band) rientra da Madrid dopo lo scioglimento dei Monkey Sex Brain. Dopo la complessa esperienza di questo progetto post-metal mai decollato, si orienta verso inediti coinvolgenti e meno impegnativi ma sempre ispirati alle sonorità rock americane. Avere le idee chiare non basta e creare l’alchimia giusta si rivela un’esperienza difficile. Solo nel 2013 prende forma l’attuale lineup composta da Gandhi al basso, Fesa alla batteria, Mau alla chitarra solista e Stef alle chitarre ritmiche, new-entry arrivata dopo la partenza di Prix, membro storico della band. Tutti ex compagni del liceo o membri di altre band della zona; della serie: ‘’ tieniti stretti gli amici e ancora più stretti i batteristi’’.
Spiegateci il perché del vostro moniker Martian Patriots…
I Martian Patriots sono una band di boyscout e bravi ragazzi. Siamo cresciuti assieme giocando a D&D in cantina, ascoltando i Metallica e ingozzandoci di merendine. Non abbiamo nulla da spartire con i ribelli del rock classico e l’unica cosa che ci accomuna a quel mondo è la sensazione di essere orfani di mamma America, un orizzonte di avventure e bei sogni che ci ha cullato nella nostra infanzia. Siamo colmi di spirito patriotico: volenterosi di contribuire e lottare per il bene di una terra che però non ci appartiene e che forse neanche esiste. Spaesati non possiamo fare altro che rivolgerci verso altri lidi… e perché non verso Marte? Anch’esso da sempre oggetto di fantasie e racconti incredibili è la terra perfetta per offrire asilo a dei profughi terrestri: i Martian Patriots.
Il debut album “8 Steps To Impact” risale al 2014. Qual era l’impatto che volevate e, soprattutto, lo avete ottenuto?
Inizialmente progetto di 12 tracce, l’album era stato ridimensionato a 8 per mancanza di fondi. A Novembre 2014 era tutto pronto e mancava solo il nome dell’album. Nessuno credeva che a 30 anni avremmo realizzato il nostro primo cd… perché scomodarsi a trovargli un nome? Una sera tornando dal mastering stavamo discutendo in macchina su come chiamarlo e, complici un paio di birre in più, il batterista salta la precedenza ad una rotonda e ci entra ad 80 km/h rischiando la collisione con un altro veicolo. Come si suol dire: ‘’la vita ci scorreva davanti come in un film’’ nel nostro caso in HD. Sovrastato da grida isteriche, Fesa riesce miracolosamente ad inchiodare e l’altra macchina ci sfreccia davanti ad un passo. In silenzio ci fissavamo negli occhi increduli di averla scampata e ad un punto il bassista prorompe: ‘’ Segno del destino! Abbiamo il nome dell’album…One Step to Impact’’. Il chitarrista sgrana gli occhi e gli risponde: ‘’8 Steps to Impact…le canzoni sono otto’’.
Unfriendly Bigfoot, Ghost In My Town definiscono fin da subito la cifra stilistica della band. Non avete mai pensato potesse essere rischioso avventurarsi in un genere, il post grunge, prettamente statunitense e, soprattutto, farlo in inglese?
L’unico rischio sentito da noi era quello di non arrivare mai a realizzare un piccolo sogno nel cassetto perché scoraggiati dai mille dubbi e paure. Quando crei un album lo metti alla prova di ascoltatori con gusti estremamente diversi. E’ inevitabile (e necessario) che venga giudicato secondo le opinioni di tutti; l’importante è divertirsi nel processo.Grazie alla notorietà acquisita in Italia negli ultimi anni da band come Foo Fighters e Pearl Jam, crediamo che il post-grunge goda di una ottima vitalità e che ci sia voglia di avere nuove proposte di questa musica energetica che però non vanta tantissimi esponenti di spicco. La scelta di cantare in inglese è inconsapevole, dettata da una sedimentazione decennale di musica nei nostri padiglioni auricolari. Ci ispiriamo a band americane e quello è il linguaggio che abbiamo fatto nostro. Siamo consapevoli che cantre in inglese per un italiano sia una impresa ardua e per questa ragione abbiamo usufruito del coaching di un’amica americana. Speriamo si senta questo sforzo.
A quali band vi ispirate?
Ovviamente l’imprinting arriva diretto nel nostro DNA da band come Pearl Jam, Foo Fighters, Biffy Clyro, We are the Ocean e Weeze. Stiamo lavorando per scrollarci di dosso la doppia pelle di questi artisti che nel nostro primo lavoro risulta evidente. Siamo in fase di muta. Rafforzeremo un lavoro iniziato nel nostro primo cd: ovvero unire sonorità ritmiche tipiche dell’american rock con l’uso marcato di effettistica per creare colore e spazialità.
Prossimi live in programma?
In estate invece saremo al Peter Pan al Parco Lambro. Venite a bervi una birra con noi buddies!!
Avete mai pensato di proporvi all’estero?
Questo è il nostro obiettivo segreto, troppo sfacciato e distante per parlarne con serietà. Ovviamente sarebbe un sogno che diventa realtà e stiamo spingendo con costanza per ricevere feedback dall’estero. Senza agenzia o qualcuno che ti segua è difficile acquisire la credibilità adeguata per fare questo passo. Cerchiamo sempre di ricordarci che siamo una realtà di recenti natali e che dobbiamo lavorare per consolidare molti aspetti. Ma non ci scoraggiamo perché, come la pietra del Siddharta, la nostra meta ci trascina a se.
La scena underground italiana offre realtà interessanti. Cosa pensate a riguardo?
Abbiamo un forte spirito di solidarietà verso le band emergenti del panorama italiano e, se condividiamo la serata, amiamo gridare e ubriacarci mentre si esibiscono. Insomma cerchiamo di riservargli lo stesso trattamento che vorremmo ricevere noi. Crediamo che tramite concerti, social e collaborazioni, sia essenziale condividere i bacini di pubblico che ognuno di noi si è creato in modo che chi è interessato alla musica inedita possa avere un canale di accesso ad essa. Avere comportamenti ostracizzanti nei confronti delle altre band nuoce alla musica giovane in generale.
Come riuscite a districarvi in un settore, quello musicale, che diventa ogni giorno più ostico e difficilmente praticabile?
Oggi paradossalmente fare musica è il lato più semplice di questo settore e, se non vuoi scomparire, devi essere imparare ad essere compositore, esecutore, designer, regista, social manager, roady, promoter, youtuber, attore e imprenditore. Nel marasma digitale, dove tutti possono facilmente condividere le loro idee, è difficile attirare l’attenzione verso il tuo prodotto e per essere ascoltato davvero devi comunque accedere prima a canali di distribuzione non selettiva (radio, tv o canali tematici). Alcuni consigli per non essere travolti sono: dividere i ruoli internamente alla band in modo che ciascuno segua una parte di queste attività con costanza, cercare di focalizzarsi su qualcosa che si può fare bene e in maniera credibile a seconda delle capacità di ciascuno, non demonizzare i compromessi se portano ad un risultato ed in fine ricordarsi che prima di tutto la musica è una passione.
Chi segue ZestToday sa bene che ci piace unire le arti. A quale artista (pittore, scultore, architetto, scrittore, regista…) associereste la vostra musica?
Direi che siamo un misto tra i racconti ironico/spaziali di Douglas Adam e le storie urbane e surreali di Chuck Palahniuk. Ci piace l’idea di utilizzare le leggende della criptozoologia e della science fiction per descrivere trasversalmente tratti che accomunano tutti gli essere umani ma senza prenderci troppo sul serio. Le nostra canzoni ci descrivono come particelle indistinte, continuamente alla ricerca di un luogo di appartenenza che sancisca il nostro ruolo all’interno di una architettura cosmica. Siamo così esasperati dalla paura di non essere unici che percepiamo paradossalmente il simile come alieno e l’alieno come nostro vicino.