Guido Catalano, l’uomo col senso dell’umorismo. E della vita
di Riccardo Tronci
Catalano. Il cognome invita quasi a sondare se possano mai esistere corrispondenze tra un cognome e le prerogative di una persona. Pensiamo a Massimo Catalano e soprattutto a Guido Catalano. Il filosofo dell’ovvio e il poeta dell’ironico, del grottesco, del normale, del divertente, delle sensazioni, dell’amore.
A rifletterci bene ogni persona prende così sul serio ogni pensiero, ogni sua fobia talvolta totalmente ingiustificata, che i pensieri stessi non possono non essere ridicoli. “Piuttosto che morire m’ammazzo”. Ventisei lettere, cinque parole, un significato immenso. Sorridiamo, a leggerla, eppure una sola frase di sole ventisette lettere, roba da far invidia a twitter, dice molto di chiunque, della paura di morire, dell’angoscia del non esserci più, dell’idea di fare tutto secondo la propria volontà, persino morire.
“Piuttosto che morire m’ammazzo” è il titolo dell’ultima fatica letteraria del “poeta più bravo di Torino”, così lui stesso si definisce in una recente intervista, giocando sempre tra l’ironia e la realtà.
Le poesie, diceva Benedetto Croce e ripeteva a memoria De Andrè, fino a diciotto anni le scrivono tutti, da quell’età in poi “continuano a farlo solo i poeti e i cretini”, andando a ridurre verosimilmente l’elite che scrive in versi. Dopotutto la poesia è quel qualcosa che ci “impedisce di impazzire”, come diceva Bukowski, perché rivela sottovoce, carezza i significati lasciando intendere altro, posando uno sguardo sul mondo, compiendo una funzione catartica.
Ecco che Catalano, Guido, è forse il migliore o l’unico in grado di spiegare l’esistenza e con essa l’amore. Perché non lo nobilita, ne parla per come esattamente è: un gomitolo pulsante di desideri, meschinità, passioni, fiducia, sincerità, lealtà, bugie e verità.
Guido Catalano ci racconta cosa siamo, prende il gomitolo così bello e candido, sferruzzato e formato da altri leggendari guru animati da una sorta di adolescente fanciullino interiore e lo butta in una pozza di fango, in una tazza di caffè o nella tavola apparecchiata, di lui e di lei, di loro due appena tornati dal lavoro. O ancora nel letto, culla e alcova, ma anche terreno di scontri, bugie, bilanci, sussurri, verità dette a mezzo, inferno e paradiso. Luogo in cui ci si lascia ogni notte, per tenere gli occhi chiusi mentre passano le ore, singoli minuti in cui, talvolta, succede ai più fortunati di ritrovarsi.
per mis T.
Ho sognato di correre in un bosco vestito da cuoco, ho sognato che sparavano a Waldo ed io non potevo far nulla, ho sognato la notte ed il temporale e te che bellissima venivi abbracciata dai lampi, eri vestita di bianco, di fuoco, avevi le calze venate di fiamme, di mari in tempesta. Ti ho sognata coi capelli neri e gli occhi di un colore che è troppo difficile dire, ho sognato che ti dicevo le cose d’amore e tu non credevi, dicevi sei pazzo, sei pazzo non voglio giocare al tuo gioco. Ho sognato di prendere a calci la nebbia, di morire di sete, di salvarmi bevendo i tuoi baci, li ho sognati quegli occhi che ridono, i tuoi occhi che ridono, ho sognato di scriverti mille poesie d’amore pazzesco e poi mille pazzesche poesie, ti ho sognata seduta ai bordi del lago, sul bordo del letto leggevi i miei versi accavallando le gambe tue lunghe abbronzate dal sole, alzavi lo sguardo, ho sognato che ti ero seduto vicino, sdraiato, ti ho sognata, dicevo, lo so rispondevi, stanotte mi hai stretta come non avevi mai fatto.
Ma non solo di amore si parla, che a distruggere e ricomporre l’amore sono buoni tutti. Insomma, quasi tutti. Forse pochi altri insieme a lui. Comunque, quando lo sguardo beffardo di Guido Catalano si posa sul quotidiano è capace di creare maestosi haiku, riflessioni profonde e semplicemente, in una mossa, dare scacco matto ai bianchi. Che muovono sempre per primi e per questo finiscono sempre per dire una quantità incommensurabile di banalità. E non è proprio detto che il diritto ad esprimersi per banalità debba essere rispettato:
– Tu condividi quello che dico?
– No
– Ma difenderesti fino alla morte il mio diritto…
– Scusa, ti interrompo un attimo
– Dimmi
– No, non ho nessuna intenzione di difendere fino alla morte il tuo diritto di dire alcunché
– Perché?
– Perché sei un cretino
– Dunque?
– Muori pure
Eccolo lì. Un terribile aforisma citato ovunque, da tutti, personificato da mille volti, una sorta di bandiera che tutti portano a verità, che piace a tutti. Uno stupido mantra a cui tutti si inchinano, a cui tutti danno ragione. Un’orribile, banale, stupidità finalmente giustiziata sull’altare di una sincera cruda umanità.
Non è necessario nobilitare l’uomo. Quando vuole essere nobile ci pensa da solo. Il problema è che la realtà, quella fuori, suona a tutt’oggi arrabbiata con i suoni dei Clash piuttosto che con quelli de Il Volo (non ce ne vogliano), siamo ancora imprigionati in un supermarket, viviamo ancora di banali luoghi comuni, ancora ci scontriamo per razzismo e se per caso riusciamo a parlare di una rosa è perché ne abbiamo vista una, tagliata e confezionata con una scritta spesso orripilante, in un supermercato. E quella, alcuni, pretendono di chiamarla poesia, perché infarciscono i versi di parole complesse, ascoltano il suono rotondo, mettono in musica, perdendo di vista il significato.
Nessuno capisce e per questo molti applaudono. Come per il re dal vestito invisibile, che sfilava nudo, applaudito da tutti, credendo di portare il più sontuoso dei capi d’abbigliamento. Quando invece la poesia è qualcosa che ti rapisce perché parla esattamente di te, coglie in poche, pochissime parole, un senso. Non importa che sia il senso della vita, un senso. Di un attimo, di una storia provata, vissuta, riscontrata, e la definisce in poche, intime parole, le sussurra. Prendendo in giro la solitudine che tutti ci portiamo dentro.
Arrivederci ragazza addio buonanotte
E ho letto poesie davanti alle persone
e ho bevuto vino rosso
e ho firmato libri
e ho bevuto altro vino
rosso
ho stretto mani
ho risposto a sorrisi
ho finito il bicchiere
ho finto
ho fatto
sul serio
mi son calato una sambuca
poi un’altra
ho avuto una gran voglia di fumare
ma non l’ho fatto
ho preso soldi e pioggia
son arrivato a casa.
Ho acceso la luce
ho bevuto un bicchiere d’acqua
il sonno è rimasto fuori a far bisboccia
mi sono seduto sul letto
mi sono preso la faccia in mano
l’ho guardata
ci siamo sorrisi.
Due ubriachi
di sotto
hanno iniziato a cantare
una serenata d’amore etilica
in mio onore.
È sabato notte.
Ho le scarpe stanche
e le ho tolte
ho le mani rotte.
Poi la serenata finisce
i due ubriachi adesso dormono
sul marciapiede
abbracciati.
Non li vedo
ma li so.
E ho sfilato la camicia
e ho tolto le braghe
e ho spento la luce
e mi sono sdraiato
e tutto sommato
odio gli adii.
Sopporto gli arrivederci
solo per convenzione sociale.
Ho chiuso gli occhi.
Ci sono notti
che la notte
è davvero troppo notte
per un uomo
il cui passatempo
è prendere in giro
la solitudine.
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