David Lynch, quando il buio è appena oltre la siepe
di Alessandro Pagni
Nel 2009, Danger Mouse (al secolo Brian Burton) musicista e produttore, insieme a Sparklehorse, pseudonimo dietro cui si celava il compianto e straziato Mark Linkous, diedero vita a un progetto musicale ambizioso e unico nel suo genere, dal titolo “Dark Night Of The Soul” . All’interno del progetto, di David Lynch, incaricato dalla combo sopra citata, di realizzare appositamente per l’album, una serie di fotografie che riuscissero a interpretare l’atmosfera e lo spirito delle canzoni proposte.
L’eclettico regista americano prese talmente a cuore la questione, da prestare la sua voce e firmare i testi di due pezzi, fra cui la canzone che dà il titolo all’intero lavoro. Insieme al disco uscì un intrigante libro fotografico, in tiratura limitata, che oggi si trova con difficoltà ed ha il prezzo di un libro d’artista.
Al di là delle intricate vicende che hanno accompagnato l’opera fin dal suo concepimento e al di là del giudizio sui brani ivi contenuti, pare innegabile il valore e la forza d’impatto dei contributi fotografici realizzati. Siamo di fronte all’abisso più inquietante proposto da sua maestà David Lynch: quello che si incontra appena fuori dalla veranda di casa. E in certi casi, non occorre neppure uscire dalle quattro mura domestiche.
Non ci sono demoni nascosti dietro pesanti drappeggi o nani claudicanti e ballerini; non c’è la strada che nel buio si incendia e ci fa migrare di vita in vita, senza requie. Né tantomeno ci troviamo al cospetto di coniglietti di pezza, intenti in faccende insignificanti, in attesa che si manifesti Satana in soggiorno.
Sono incubi a chilometro zero, quelli che accompagnano le melodie di Linkous: la Hollywood di cartone delle lunghe notti di Mulholland Drive, trasposta nei vicoli, nelle periferie e nei quartieri borghesi dell’America orgogliosa di sé, dove casalinghe impeccabili ingozzano i palati viziosi di ospiti odiati a morte e il gesto di cortesia di un vicino di casa, stride sotto la pelle come un coltello, che scivola maldestro sulla ceramica di un piatto.
Ricordo un pezzo del Clown di Böll (H. Böll, Opinioni di un Clown) quando, in uno dei suoi flussi di coscienza, Hans dice: «Inghiottire tutto, coprire tutto di falsa cortesia verso i vicini, fino al momento in cui, nelle silenziose sere d’estate, dietro le porte chiuse e le persiane abbassate si scaraventa porcellana fine contro fantasmi di figli non nati».
Dark Night Of The Soul tratta anche di questo: della risata divertita di una coppia per strada, che la posa lunga dell’otturatore, deforma in un ghigno crudele; di uno sbadiglio che si allunga e si trascina, trasformandosi in un grido di terrore. E tanti piccoli oggetti quotidiani, divengono oscuri feticci, seminati da Lynch all’interno di spaccati intimi e indecifrabili, dove le ombre e il buio si insinuano ovunque come fumo.
Falsa è la familiarità dei luoghi dove ambienta questi abissi.
Falso il sole quando si vede, perché proietta ombre nere come minacce.
Falsa è la vicinanza, falsa è l’innocenza di queste location, che ogni notte, il buio trasforma in teatrini di puro male.