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Cristian Credi, il tatuaggio e ‘La piccola Bottega del Dolore’

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cristian credi a lavoro

di Riccardo Tronci

 

 

Un tatuatore, un nuovo studio di tatuaggi, una “piccola bottega del dolore”, pietra miliare di una nuova vita. Che la vita forse è definibile come un insieme di steccati da saltare, prove da compiere, significati da interiorizzare insieme a cicatrici. Un percorso fangoso e difficile del quale portiamo i segni addosso. Alcuni scelgono di tenere per se stessi i propri mantra e preghiere (religiose o laiche), gli aforismi, i ricordi e le persone, altri scelgono di mostrarle. A tutti. Ed ecco che quando incontriamo quelle persone abbiamo la possibilità di accostarci alla loro intima chiave di lettura, fornita non più solo da sguardi, gesti e parole, ma anche da simboli. O forse no. Che la finzione è insita nell’uomo.

 

Un tatuatore è come uno sciamano, in un certo senso. E’ colui che chiami a raffigurare sulla tua pelle ciò che hai dentro. O ciò che vuoi mostrare prima dei denti. Colui che non deve far altro che far emergere ciò che sotto la cute è già presente. E se sotto l’epidermide ci sono piccole farfalline, delfini e stelline, forse è il caso di porsi qualche domanda in più.

 

cristian credi Cristian sembra differente dall’ultima volta che ci siamo incontrati. Non assomiglia a uno sciamano, no. Ma a una persona libera e soddisfatta di sé, cosa da non poco e forse magica di per sé, considerando le tasse e le problematiche connesse a chi, in Italia, prova a battere la propria strada. Cristian Credi non è forse (ancora) un tatuatore di fama internazionale, non vanta radici maori o passati poco raccomandabili ad Alcatraz. Anzi, parla molto seriamente e con il sorriso di come sia riuscito ad evadere da una prigione tutta italiana (la disoccupazione) sfruttando la sua passione, parla del suo lavoro, del suo essere artigiano, dei suoi inizi.

 

Il mio rapporto con il mondo del tatuaggio è iniziato più o meno 15 anni fa e per circa 12 anni non mi ha mai neppure sfiorato l’idea di tatuare. Passavo interi pomeriggi nello studio di Paolo Galardi e per ammazzare il tempo sfogliavo le riviste che teneva nella piccola sala d’attesa. Guardavo e assorbivo (di questo me ne rendo conto solo ora). Sfogliavo le pagine plastificate, incameravo immagini e, nel fare questo, qualcosa iniziava a crescere dentro di me, a mia insaputa”.

 

Il mondo era differente. C’erano ancora maestri leggendari capaci di creare macchinette per tatuare da motori di walkman, Baggio non si era ancora ritirato e Morgan era ancora un musicista. Le persone tatuate non erano tantissime e “io scelsi per il mio primo tatuaggio Rino Valente, a Pontedera. E’ una cosa buffa: quando ti fai il primo tatuaggio tendi a caricarlo di così tanti significati che ti ci vorrebbe una schiena per farceli entrare tutti. Ora il tatuaggio ha per me così tanti livelli di lettura che mi faccio tatuare qualsiasi cosa anche solo perché stimo il tatuatore che la fa, la sua arte, o perché mi sta simpatico”.

 

Quel mondo, anche negli anni più recenti, aveva contratti a tempo indeterminato, lavori e pensieri di stabilità. “Lavoravo come corriere espresso per la Transystem. Recapitavo posta a firma, avevo un contratto a tempo indeterminato e una ragazza che amavo. I miei propositi per il futuro erano trovare una casa dove andare a vivere con Lucia e, magari, un cane. Ma la crisi toccò sia me che lei e, a dispetto dei nostri contratti, ci ritrovammo entrambi a piedi. Dovevo re-inventarmi. Lucia si era messa in mente di voler allargare il tatuaggio che Rino le aveva fatto qualche anno prima sulla schiena, ma non sapeva con cosa. Una sera mi passò una penna e mi disse: “Perché non provi a disegnarmi dei fiori di pesco attorno?”. “Disegnare IO?! Dei fiori di pesco, poi?!”, pensai. L’ultimo disegno l’avevo fatto alle medie sì e no. Ma acconsentii. Quei fiori di pesco li disegnai e a lei piacquero pure molto. Li cancellò e me li fece disegnare di nuovo, e ancora una volta, e di nuovo. Mi vennero uguali tutte le volte. Forse solo ora realizzo che tutti quegli anni passati a guardare tutte quelle riviste avevano radicato in me molte più cose di quante immaginassi. “Perché non provi a tatuare?”, concluse la Lucia. Scoppiai a ridere e le restituii la penna. “Scusa, ci stai dietro da tanti anni, che male c’è? Senti qualcuno, informati, vedi se come fare”. Non so perché, ma lo feci”.

 

cristian credi Niente si impara per caso, si deve partire da un corso (che insegna anche principi sanitari) e dall’umiltà. Se qualcuno di voi vuole imparare a tatuare sappia che la propria cucina potrebbe, un giorno, trasformarsi in un laboratorio artigiano: “Lessi da qualche parte che in molti si esercitavano sulla cotenna di maiale. La cucina di casa mia prese a sembrare il banco di un norcino: ovunque c’erano pezzi di cotenna messi sotto sale grosso (per simulare la tonicità della pelle). Li preparavo il giorno prima e ci lavoravo il giorno dopo”. Poi la lunga via crucis delle porte sbattute in faccia di chi alla richiesta di imparare risponde indicando la via di uscita e un “buona fortuna” allegato. Tutti, tranne uno: Giacomo Innocenti Bindi. “Prima di tutto, Giacomo mi ha insegnato a rispettare la professione: dodici ore il giorno in studio, dalle 8 alle 20, prima a pulire e a sistemare il materiale, poi a rapportarsi coi clienti, infine a capire come si tirano le linee, come si sfuma, come si stende il colore”. La partenza, anzi, la ripartenza, sta nello spirito di bottega che caratterizza il nostro paese fin dall’Umanesimo, dal rapporto intimo tra maestro e allievo. E da qui anche il tramandare di un credo deontologico: “Chiedo sempre alle persone perché si vogliono tatuare e perché quel disegno. Ma non sono burbero. Anzi, voglio che le persone siano rilassate con me e che vivano un’esperienza serena”.

 

E tuttavia non sono solo i clienti a scegliere i tatuatori: gli sciamani talvolta selezionano gli uomini degni di indossare  la propria firma. “Non si accettano tutti i disegni, non tutte le persone. Nessuna farfallina a caso, se il disegno proposto non mi piace mi scuso e rifiuto. Quella persona vestirà sempre la mia firma e la mostrerà a tutti, per cui entrambi dobbiamo esserne orgogliosi”. Ma può essere anche che un disegno non soddisfi un qualche criterio estetico, rispondendo, però, ad altri richiami: “Una ragazza voleva sulla sua pelle simboli che ricordassero i suoi genitori. Mi chiese di tatuarle un disegno un po’ infantile e stravagante, realizzato da sua madre quando era adolescente. La tatuai. Lo feci con entusiasmo”.

 

Poi gli incontri con Mauro “Sago” Francavilla (venti anni di esperienza nello studio Cassina de’ Pecchi), Andrea Cobalto e Alexia Papi. E oggi, in via Ariosto 8 a Pistoia, la Piccola Bottega del Dolore. Che non è un nuovo museo delle torture, nessuno verrà rinchiuso dentro la vergine di Norimberga, nessun uomo o animale verrà maltrattato. Eccezion fatta per le farfalline. Promesso.

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